Giovedì 17 gennaio saranno trascorsi 70 anni dall'inizio della Ritirata di Russia. Una tragedia che segnò le sorti di migliaia di alpini. Dei circa 15mila al fronte fecero ritorno a casa dalle steppe del Don solamente in 2900.
Sulla Gazzetta di Saluzzo di questa settimana due pagine dedicate alla tragedia della Cuneense e l'intervista al reduce saluzzese Domenico Dellerba.
Domenico Dellerba osserva il suo cappello alpino. Non è
quello che indossava 70 anni fa in Russia, quello l’ha smarrito. Gli occhi non
cadono sulla penna nera o sul panno verde, ma su quella medaglia, bianca, col
nastrino bianconero. La fissa con insistenza, gli occhi diventano lucidi. Nella
testa le immagini passano veloci, ma indelebili.
«Penso a quei giorni e mi sento male, ancora oggi a
settant’anni di distanza - racconta -. Perché chi ha parlato molto ha visto
poco. Chi davvero era lì, in mezzo ai morti e al dolore, si è sempre rifiutato
di raccontare tanta tragedia e sofferenza».
La croce bianca appuntata sul cappello è la “medaglia di
ghiaccio”. Sul retro sono riportate l’acronimo Csir (contingente italiano in
Russia), le date 1941 e 1942, e i luoghi: Dnepr, Donest, Don.
Oggi Domenico Dellerba, originario di Castellar, da tempo
residente a Saluzzo, ha 90 anni. È l’ultimo saluzzese reduce dal fronte russo.
«Avevo 20 anni nell’estate del ‘42. Dopo l’addestramento a
Borgo San Dalmazzo, sono stato destinato al fronte russo. Pensavamo alle
montagna, ci ritrovammo in pianura. Fino a dicembre fu semplice. Controllavamo
il fronte, poi a gennaio la situazione precipitò. Se avessimo ripiegato anche
solo il giorno precedente il 17, avremmo subìto molte meno perdite».
Lei era in prima linea quando venne dato l’ordine di
ritirata?
«Sì, fummo tra gli ultimi a partire. Ero nel Battaglione
Saluzzo. Impiegammo due settimane per uscire dalla sacca. I russi ci avevano
accerchiati,di giorno si marciava sotto l’artiglieria, di notte venivamo
attaccati dai partigiani. Ho perso tutti gli amici, non ho mangiato per oltre
dieci giorni. Poi ci è stata data una pagnotta: eravamo in sedici. Eravamo
sfiniti. Di notte i russi ci lasciavano entrare nei piccoli villaggi in cerca
di rifugi, poi attaccavano prima dell’alba. Un giorno, sbandato, finii in un
gruppo di case occupato da tedeschi in ripiegamento. Mi cacciarono fuori, così
mi rifugiai in un letamaio, l’unico luogo dove poter tenere i piedi al caldo.
Sentìi gli spari nel cuore della notte. Erano i russi, uccisero tutti quelli
che erano nelle dacie».
Oltre all’armata russa dovevate combattere anche il freddo…
«Quando si alzava la tormenta era impossibile andare avanti.
Il freddo ti entrava nelle ossa. Si avanzava di 200 metri all’ora. Ma la cosa
peggiore erano i piedi. Quanti ne visti congelati. Una notte fummo svegliati e
costretti a fuggire. Gli scarponi erano due pezzi di ghiaccio, inutilizzabili.
Così avvolsi i piedi nudi in stracci e stoffe. Non li misi più fino a marzo. La
neve era asciutta. Gli stracci riparavano più delle scarpe, dure, che
procuravano tagli e piaghe».
Sulla ritirata sono state scritte molte pagine. Ma restano
ancora tanti vuoti. Perché?
«Dopo la guerra tutti volevano sapere cosa era successo in
Russia. Chi aveva combattuto con la baionetta, visto la morte in faccia decine
di volte come me non aveva voglia di parlare. Non si era più persone.
Elemosinai un tozzo di carne da alcuni alpini della Tridentina che avevano
trovato un piccolo maiale. La mangiai cruda, con avidità. Per interi giorni mi
nutrii solo di neve e pochi cucchiai di minestra. Uscii dalla sacca russa
solamente il 5 febbraio. Negli occhi avevo le immagini di centinaia di
cadaveri, feriti, corpi straziati».
Lei porta sul cappello la medaglia di ghiaccio. Cosa
rappresenta?
«Alle adunate capita di incontrare reduci di Russia che
hanno questa onorificenza. Basta uno sguardo per capirci. Fu il generale
Battisti ad inviarla a chi, sul Don, aveva combattuto in prima linea. Scelse i
nomi con cura, la concesse a chi aveva davvero visto la tragedia del
ripiegamento. È un onore oggi mostrare questa medaglia, ma anche un segno che
fa ripiombare in quei giorni da incubo».
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